Alla ricerca della sicurezza

Nei giorni immediatamente successivi agli attacchi di Parigi, Giuseppe Genna ci mette di fronte al fatto che “uno è attivo politicamente senza accorgersene” e che nonostante la distanza dall’orrore, fisica e costruita dai media, la guerra investe un campo di battaglia globale, “si estende sottotraccia e si intensifica temporalmente”: la guerra è “un’attività quotidiana della vita stessa”. Il presidente francese che dichiara “siamo in guerra” non esprime un proposito, rivela quel che già sapevamo.

30 settembre 2015. I ministeri dell’Istruzione, università e ricerca, delle Finanze e della Difesa istituiscono un percorso di studi universitari: due corsi di laurea (triennale e magistrale) in “Scienze della difesa e della sicurezza” finalizzati alla “formazione di esperti e di ufficiali delle Forze armate”. Un nuovo impulso per l’università italiana in crisi? Un’opportunità per atenei sottofinanziati e schiacciati dalla competizione spietata per risorse e iscrizioni? Perché non specializzarsi, cogliere lo spirito dei tempi e adeguare la proposta formativa alle necessità dell’economia? L’ateneo sassarese sembra essere di questo avviso e si propone di offrire un corso di laurea interdipartimentale triennale in “Sicurezza, Protezione civile e Peace keeping o Sicurezza Organizzazione e Sviluppo sostenibile (S.O.S.)”, destinato a studenti sensibili al “rispetto dei diritti umani, la cooperazione internazionale, la sicurezza interna ed esterna”, al personale militare e della pubblica amministrazione.

Cosa cambia? In fondo, esistono corsi di laurea finalizzati alla formazione militare (a Torino e Modena-Reggio Emilia), in fondo, la ricerca universitaria è legata direttamente o indirettamente all’industria bellica. Eppure ci sono alcune questioni nuove. La nuova classe di corsi di laurea è pensata come (1) superamento della distinzione delle discipline strettamente belliche dalle scienze sociali, adottando (2) un paradigma più ampio e specifico: la sicurezza, che (3) coinvolge potenzialmente ogni dipartimento in questo progetto culturale e (4) riunisce sotto un tetto comune lo “sviluppo sostenibile”, le “missioni di pace”, la cooperazione, le politiche securitarie, la protezione civile, l’accoglienza dei profughi, ecc. Emergenza, prevenzione e controllo sono il collante pratico e ideologico di questa proposta.

Se, come scrive Giorgio Agamben su Le Monde, stiamo assistendo a una trasformazione radicale del modello di Stato, fondata su una relazione sistemica tra terrorismo e stato di emergenza e sicurezza, e nella quale i cittadini depoliticizzati, passivi si possono mobilitare solo “con la paura di un nemico straniero ma non del tutto estraneo” o, come sostiene Judith Butler, “la distinzione stato/esercito si dissolve alla luce dello stato di emergenza” che si fa permanente, la politica lascia il posto alla polizia, lo Stato di diritto allo Stato di sicurezza, il Nemico diventa tanto più incerto quanto più definito da razza, cultura o nazione.

È possibile che sia proprio la sicurezza il tema attorno al quale riorganizzare la ricerca? La gestione permanente delle crisi è l’orizzonte del futuro prossimo, l’incertezza come forma di governo necessita di una classe dirigente, anche militare, capace di farsi garante dell’ordine, di fornire un supporto alla discrezionalità del potere statale che agisce al di fuori della normalità proprio a causa dell’impossibilità di definire un nemico quando tutti potenzialmente lo sono. Simbolicamente, ma anche molto concretamente, questi corsi di laurea sanciscono un salto di qualità.

Allo stesso tempo, si fa leva sulla necessità di posti di lavoro, sulla necessità di finanziamenti alla ricerca, alla produzione, si fa leva sulla necessità di adattarsi alla nuova economia, di stare al passo coi tempi. In un’isola nella quale l’unico settore nel quale sembra si voglia investire è quello della difesa, delle esercitazioni belliche, della produzione di armi, che ruolo dovrebbe avere l’istituzione universitaria? Dovrebbe cogliere questa opportunità, supportando culturalmente il paradigma che ci vorrebbe tutte e tutti arruolate e arruolati? Dovrebbe rinunciare all’indipendenza da altre istituzioni pubbliche, come le forze armate? Forse, invece, dovrebbe essere il luogo del non consenso, una presenza critica, un interlocutore con il quale i territori possano pensare alle trasformazioni possibili per sfuggire alla trappola della dipendenza dall’economia e dalla cultura di guerra.

È vero: siamo in guerra, che lo vogliamo o no, e i contendenti ci chiedono di arruolarci: “con noi o contro di noi!”. Disertiamo questa scelta: è falsa! Il paradigma securitario va smontato, ci servono l’azione collettiva quotidiana e le parole per farlo. Non è di sicurezza che abbiamo bisogno, né di paternalismo, emergenze o carità, non è questione di difendere o di essere difesi, ma di riconoscere l’oppressione altrui nella propria, praticare la cura reciproca e lottare contro quelle forme di violenza che non saranno mai definite terrorismo perché riaffermano i rapporti di potere esistenti.

Canaja

Per approfondire:

Giorgio Agamben, Zone grigie che preparano dittature

Giuseppe Genna, Non in mio nome, signor Hollande e Buongiorno, bambini

Judith Butler, Mourning becomes the law e Precariousness and grievability – When is life grievable?

Arun Kundnani, One of “them” or one of “us”?

Wu Ming 1, Valerio Renzi e Giuliano Santoro, Daesh, le nostre città, la guerra dei cent’anni

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