Basi militari, bonifiche e riconversioni

Da sempre il movimento di lotta contro le basi militari in Sardegna si è posto come principale obiettivo la chiusura e la dismissione dei poligoni e delle infrastrutture presenti sul suolo sardo, oltre alla resistenza contro gli insistenti tentativi, susseguitisi negli anni, di ampliarne l’estensione. Se per lungo tempo questa opposizione si è basata su ragioni di ordine politico, derivanti dal rifiuto delle logiche di spartizione coloniale del mondo, la progressiva emersione del problema ambientale e sanitario legato alla sperimentazione degli ordigni bellici, al brillamento di materiali estremamente tossici, dall’uranio impoverito, alle grandi quantità di metalli pesanti presenti negli involucri e nelle testate dei missili, alla presenza massiccia di ordigni inesplosi, ha messo in primo piano quanto la semplice chiusura non sia obiettivo sufficiente: sessanta anni di occupazione militare hanno, di fatto, prodotto un inquinamento profondo e pervasivo, sia nelle aree direttamente interessate dalle attività militari che nelle aree contigue.

Il tema delle bonifiche è diventato uno dei temi centrali nel dibattito sulle basi militari, soprattutto a partire dal caso dell’uranio impoverito, e poi, in maniera eclatante, con la chiusura della base sottomarina nucleare USA de La Maddalena, la cui bonifica è diventata un grande affare per cordate di affaristi legate al sistema di potere coagulatosi intorno alla gestione degli appalti per il fantomatico G8, poi spostato a L’Aquila (altra sede di scandalose orge affaristiche sulla pelle della popolazione terremotata). Bonifica e riconversione sono diventate così porte d’ingresso per nuove modalità di accaparramento e sfruttamento del territorio, mentre le lobby militariste, senza alcuna vergogna, utilizzano lo scandalo delle mancate bonifiche a La Maddalena come argomento in favore della perpetuazione dell’occupazione militare nel resto della Sardegna, unendo la beffa al danno.

Oltretutto, anche l’esercito ha colto la palla al balzo per proporsi come attore dei processi di bonifica, nonostante impedisca da anni un sereno confronto scientifico sugli effetti ambientali delle attività militari, e non riconosca minimamente la presenza di alcun reale danno ambientale, con risultati che non possono che essere paradossali, com’è già stato ampiamente dimostrato per le sbandierate operazioni di bonifica del poligono di Capo Teulada, comunicate alla stampa giusto tre giorni prima della grande manifestazione di Capo Frasca del 13 settembre 2014, e portate avanti con l’impegno che si dedica a una passeggiata ecologica in spiaggia, senza tenere conto dell’immane problema rappresentato, per esempio, dal cumulo di ordigni inesplosi, che costringe ad interdire l’ingresso alla penisola di Capo Teulada persino allo stesso personale militare.

Se il tema delle bonifiche è utilizzato in maniera strumentale e subdola, questo accade a maggior ragione con il tema della riconversione. E basterà citare il caso del Distretto aerospaziale della Sardegna, entrato nel discorso pubblico con la proposta del sen. Scanu (PD) di barattare la chiusura dei poligoni di Capo Frasca e Teulada con una “riconversione” di Quirra ad attività “civili” per lo sviluppo della ricerca tecnologica, ma di fatto divenuto coacervo di interessi bellici e privati (tra i 25 soci DASS figurano, oltre le due università sarde, il CNR e l’Ist. Naz. Di Astrofisica, società implicate nella ricerca bellica, che hanno appena ricevuto 600.000 euro dalla finanziaria regionale per test sui droni nell’aeroporto di Fenosu). Infatti, mentre il Ministero della Difesa ha già risposto picche alle velleitarie proposte del sen. Scanu riguardo alla chiusura delle basi, si parla oggi di sovrapporre le attività del DASS a quelle del poligono di Quirra (nessuna riconversione, quindi, semmai una espansione), nonché di estenderle agli aeroporti di Tortolì e Fenosu, e alla zona industriale di Porto Torres, di fatto sancendo un’ulteriore asservimento del territorio sardo alle esigenze del complesso militare-industriale italiano.

È evidente dunque l’importanza, per il movimento che si batte contro la debordante presenza militare in Sardegna, di collocare in maniera corretta il dibattito sulle bonifiche e la riconversione, innanzitutto ponendo la priorità logica della chiusura e della dismissione delle basi rispetto agli altri momenti, poi stando bene attenti ai processi di strumentalizzazione politica ed economica che si potrebbero sviluppare.

Le bonifiche non possono essere svolte da chi ha inquinato, né si può pretendere, come avviene ipocritamente oggi, che il principio del “chi inquina paga” possa diventare “chi inquina paga e quindi opera le bonifiche in base ai propri interessi economici”. Le bonifiche devono essere pagate dall’esercito ma svolte da entità completamente indipendenti, che rendano conto solo e soltanto alle comunità locali del proprio operato. La riconversione, alla stessa maniera, deve rappresentare una restituzione alla popolazione locale del diritto di costruire da sé un proprio modello di vita e di organizzazione territoriale, non una perpetuazione dell’asservimento del territorio agli stessi che l’hanno sfruttato precedentemente, come preannuncia il modello del DASS.

D’altra parte, come momento intermedio tra la chiusura e le bonifiche, è necessario immaginare un ulteriore passaggio, che è quello di un’apertura totale dei siti militari alle ricerche di organismi indipendenti che possano fornire dati attendibili sui livelli di inquinamento delle aree. L’esperienza di questi ultimi vent’anni ci ha dimostrato che gli apparati nazionali e regionali impegnati nel monitoraggio ambientale e sanitario sono troppo facilmente assoggettabili alle esigenze della difesa dello Stato: numerose sono le perizie smontate dalle ricerche indipendenti promosse dai comitati di base, numerose le evidenze portate a conoscenza dell’opinione pubblica solo grazie al lavoro di ricercatori indipendenti e comitati di base.

Da questo punto di vista, la necessità, sentita da più parti, di muovere un discorso che non sia soltanto oppositivo, rispetto alle basi militari, ma anche propositivo, rispetto ad un modello economico sostitutivo, si scontra con l’evidente impossibilità di costruire scenari progettuali credibili, non astratti, di riconversione, in mancanza di studi indipendenti (e della possibilità di eseguirne in un clima sereno) sullo stato di alterazione ambientale dei luoghi. Proposte articolate e progettuali di riconversione, allo stato attuale, sono ampiamente premature, e non possono essere operate senza i due passaggi fondamentali della diagnosi e delle bonifiche.

È ovvia la necessità di fornire un’alternativa a intere comunità la cui economia e la cui stessa società è ampiamente costruita intorno al funzionamento delle strutture militari, ma, per quanto possa sembrare paradossale, è proprio la presenza delle strutture militari a rendere impossibile, e in parte inimmaginabile, un’alternativa.

Comitato Studentesco contro l’occupazione militare della Sardegna

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