What if

Nuova rubrica tutta per voi, avrete il piacere di leggere storie plausibili che potrebbero realmente accadere, meno male che c’è questa fanzine sennò cosa sarebbe successo?

Era un pomeriggio tranquillo tra le mura del Res Publica, la musica galleggiava per le stanze dell’ex caserma e c’era una generale atmosfera fresca e rilassata, quando a un certo punto questa sensazione si fece strana come se qualcosa stesse per andare storto da un momento all’altro. Io stavo in caffetteria a scambiare due chiacchiere, quando decisi di uscire a prendere una boccata d’aria in piazza e vidi, appena uscito, la malinconia che era scesa su tutti i presenti e, a una mia domanda su cosa fosse successo, un soggetto con occhiali da vista, capelli scompigliati e occhiaie da paranoia perpetua m’informò.
Volevano chiuderci e stavolta la cosa era seria, non una notizia scrausa da giornaletto di paese, e lì provai un profondo senso di sconforto nelle mie vene, che era dato dal fatto che stavolta io non potevo, e nessuno poteva, farci nulla.
Forse però una ‘’soluzione’’ c’era ed era quella che tutti, appena appresa la notizia, hanno pensato subito. Nessuno aveva il coraggio di dirlo ad alta voce ma era un pensiero comune di resistenza più totale che, come la musica di prima, galleggiava nell’aria. Avendo tutti capito ciò, si radunò istantaneamente l’assemblea per decidere che fare e si arrivò alla soluzione che nessuno voleva veramente, ma, per un fatto di orgoglio, di unità e lotta personale, si decise. L’occupazione più totale era stata decisa e sciolta l’assemblea ognuno andò a fare rifornimenti per campare ad oltranza. Il giorno dopo le scorte accumulate erano tali da poter tirare avanti almeno un mese, così, organizzati bene i rifornimenti, il lucchetto si chiuse e dentro a sopravvivere restarono solo i più attaccati a quel luogo. Chi non voleva farlo aveva avuto l’accortezza di andarsene prima per evitare disagi. Io e un paio di amici attaccati quanto me a quel luogo eravamo là dentro, convinti che tutto ciò sarebbe servito ma con la sensazione comunque che quella situazione non poteva durare a lungo. L’ambiente all’interno i primi giorni era surreale, ogni forma di contegno era stata lasciata fuori da quelle mura, ma la convivenza era pacifica e in totale collaborazione. Io passavo buona parte delle giornate in terrazzino a godermi un po’ d’aria fresca, lontano dall’ansia sopraggiunta dopo i giorni d’idillio dati dalla totale mancanza di regole formali. Si sentiva un vento freddo che vagava come un fantasma per i corridoi del Res Publica, freddo dato dall’ansia che non saremmo potuti stare lì per sempre e che stavamo andando avanti per inerzia: alla fine ci avrebbero stanati, ma la cosa che mi confortava era che nessuno aveva la minima intenzione di mollare, riponendo tutte le speranze nella forza di un lucchetto. Una mattina, sul presto, vennero a bussare alla nostra porta. Non essendo ospiti graditi nessuno andò ad aprirgli e allora loro, in quanto ospiti non graditi, entrarono ugualmente lasciando il vuoto dove prima si trovavano un cancello e il suo fedele lucchetto. Ci trovarono in condizioni di disagio generale, ma la cosa a noi sembrava normale perché avevamo occupato per più di una settimana buona e nessuno aveva avuto screzi e litigi, solo sporadicamente ma perché dati dal più che onesto quantitativo di birre che servivano solo a rendere tutto meno amaro di prima. Io mi trovavo in caffetteria, come al solito, a scambiare due chiacchiere, quando vidi entrare mio padre, e lì successe l’impensabile: guardandomi capì che non avevo fatto nulla di sbagliato, avevo resistito e combattuto per qualcosa in cui credevo e, sbottonata la divisa, la abbandonò a terra assieme ai suoi gradi e se ne andò a casa a gustarsi un buon bicchiere di vino.

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Alghero, autoproduzioni, cultura, socialità, autogestione