Sardegna nascosta: Storia di una servitù militare

C’è una Sardegna nascosta, che i depliants turistici si guardano bene dal raccontare.

È la Sardegna delle “servitù militari”. Una Sardegna, per paradosso, più grande della Sardegna stessa: 35.000 ettari (spazio marino compreso) che in virtù di qualche accordo più o meno segreto, o misterioso, lo stato italiano ha deciso di sottrarre alla sovranità del popolo sardo.

Sono territori che lo stato italiano usa dalla fine della seconda guerra mondiale, allorché a Washington si decise il ruolo dell’Italia nello scacchiere della Guerra Fredda: la Sardegna risultò essere un crocevia politico-militare strategico, funzionale all’alleanza atlantica. Nacquero così i poligoni del Salto di Quirra-Perdasdefogu, Teulada-Capo Frasca, che si aggiunsero alle tante altre servitù esistenti, quali Cala Mosca e Decimo, in provincia di Cagliari, o Poglina ad Alghero (dove i gladiatori di cossighiana memoria venivano addestrati a “sventare il pericolo rosso”).

È in questi poligoni che si sono sperimentate le armi più micidiali dell’ultimo dopoguerra: dalle bombe all’uranio impoverito a quelle al fosforo, delle cui conseguenze possono testimoniare gli abitanti di Falluja. I poligoni, in particolar modo in quello di Quirra, non sono serviti solo per sperimentare ordigni di morte ma anche materiale a uso civile, e sono stati messi a disposizione per le industrie che ne hanno fatto richiesta: ovvero tutte e tutti potevano (e possono) venire, sperimentare, inquinare e andarsene dopo aver sborsato un congruo obolo allo stato italiano e aver rilasciato un’autocertificazione circa i materiali usati. Quirra, Perdasdefogu: nomi che diventano sinonimi di agnelli nati malformati nei pascoli adiacenti o situati nei dintorni del Poligono, soldati e pastori ammalati di tumore o leucemia.

Un’isola, insomma, bombardata da cielo mare e terra da tutti gli eserciti del mondo (almeno di quelli NATO, per non parlare di Israele) e perfino nei suoi laghi: nell’Omodeo si addestrano varie polizie e nei periodi di secca i bossoli si notano a occhio nudo.

Il 61% delle servitù militari italiane si trova in Sardegna, il restante è distribuito prevalentemente al confine nord orientale: Friuli e Veneto. Una così massiccia presenza ha fatto sì che nei paesi limitrofi si creasse una sorta di mono-economia fatta di terziario e indotto; ma il benessere che le basi hanno portato è stato minimo, impareggiabilmente minore di quello che si sarebbe potuto ottenere usando le risorse che la terra poteva offrire: basti pensare che Teulada è l’unico comune costiero che ha visto diminuire la propria popolazione, e che la Sardegna importa l’80% dei generi alimentari che consuma. Un’economia fatta di assistenza e di piccole furbizie, con i famosi indennizzi che il più delle volte arrivano con anni di ritardo e “a pioggia”. Elemosina per rabbonire i pescatori e “i pescatori”.

Di fronte a questo disastro non basta constatare che la Sardegna ha avuto una classe politica incapace, non basta dire che essa è stata miope nelle scelte e che continua sulla stessa scia con le medesime politiche industriali eterodirette, fatte di inceneritori ed ettari di terreni agricoli sottratti all’agricoltura per essere immolati alla speculazione energetica. Bisogna pretendere lo smantellamento di queste basi e contemporaneamente le bonifiche delle terre e dei fondali marini: bonifiche vere, non fasulle e truffaldine come quelle operate a La Maddalena.

Non basta: bisogna che sia il popolo, e in primo luogo gli abitanti dei paesi più coinvolti, a liberarsi da questa sindrome di Stoccolma, che li rende felici dell’essere schiavi di un’economia mortifera e propedeutica per tutte le guerre: che, è bene ricordarlo, come effetto collaterale non producono solo morti e feriti, ma profughi e disperati pronti a lasciare le loro terre per dirigersi “altrove”.

Siano, dunque, i cittadini sardi in prima persona a chiedere un’altra economia, che soddisfi i bisogni primari della popolazione: e non succeda che all’economia di guerra venga aggiunta quella della speculazione energetica. Si crei un movimento che richieda terre da coltivare, bonificare e mettere in sicurezza per un’industria di trasformazione dell’agroalimentare. Bisogna non cedere al richiamo delle sirene di coloro che, parlando di “graduali dismissioni”, preconizzano un futuro “tecnologico” per queste basi: una tecnologia tutta volta alla guerra tecnologica, da esportare in direzione Sud: verso l’Africa e il Nord Africa in particolare. La Libia ne è un esempio. Non si ceda al ricatto occupazionale così come fanno amministratori e “dirigenti sindacali” non appena i militari stranieri decidono di togliere il disturbo.

Alle politiche di guerra si risponda e si pretendano politiche di tolleranza e accoglienza.

Il futuro, vista la situazione che l’Occidente ha creato in Africa, rischia di essere persino più fosco di quello attuale. I poligoni sardi saranno sempre più al centro delle sperimentazioni di nuove tecnologie: radar, satelliti, droni, rampe di lancio da cui far decollare strumenti di morte.

Bisogna che il popolo sardo scelga: se accettare queste politiche o invertire la rotta. Capo Frasca, Decimo, Porto Pino, il movimento contro l’ipotesi di stoccaggio delle scorie nucleari in Sardegna e, ora, il Comitato Studentesco contro le Servitù militari hanno dimostrato che qualcosa si sta muovendo. Speriamo si prosegua su questa strada.

Salvatore Drago di ASCE

(Associazione Sarda Contro l’Emarginazione)

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